A volte, nei momenti in cui la mente si allenta, si aprono porte interiori che di solito teniamo chiuse. Non perché ci sia qualcosa di sbagliato in ciò che nascondono, ma perché convivere ogni giorno con tutte le versioni di noi stessi è impossibile. La mente, invece, conserva tutto. Ricorda tutto. E quando la lasciamo agire senza filtri, può mostrarci frammenti di coscienza, parti dell’Io che crediamo perdute o che non abbiamo mai osato guardare.
Non siamo un’unica identità. Siamo strati, fasi, possibilità, memorie emotive. Siamo le versioni che siamo state e quelle che non abbiamo mai potuto diventare. E in certe condizioni, rilassamento, lucidità interiore, stato di coscienza più profondo, la mente crea un ponte tra questi strati, presentandoci figure che appartengono a epoche diverse della nostra esistenza interiore.
Possono comparire: l’Io bambino, l’Io che non ha mai avuto un’adolescenza, l’Io che ride nel prato, l’Io dimenticato o messo da parte, l’Io che avremmo voluto essere, perfino un’ombra più piccola, primordiale, simbolica.
Questi non sono ricordi fotografici. Sono metafore della coscienza. Forme con cui il nostro sistema emotivo prova a comunicare.
Quando l’immagine diventa messaggio
A volte accade che, nel corso dell’esplorazione interiore, emerga un’immagine improvvisa, una scena inattesa che non assomiglia a un ricordo ma nemmeno a un’invenzione. Qualcosa che si presenta con la naturalezza di ciò che vuole essere finalmente visto. Non serve ricostruire da dove arrivi: è il suo significato a chiedere attenzione.
Ci sono volti dell’Io che compaiono con una chiarezza sorprendente: una figura giovane e luminosa che corre, una bambina immobile e silenziosa, o persino un nucleo più piccolo, quasi primordiale.
Sono simboli che non si scelgono. Arrivano. E quando arrivano, non portano spiegazioni, ma domande.
Forse l’inconscio sta indicando un punto rimasto in ombra. Forse sta suggerendo una direzione, mostrandoci cosa abbiamo perduto, cosa non abbiamo vissuto, o cosa abbiamo lasciato indietro. O forse, nel volto più fragile e originario, sta solo dicendo: ricorda da dove vieni.
Non è necessario interpretare tutto. A volte basta riconoscere che certe immagini non sono casuali. Cercano noi. E ci trovano esattamente nel momento in cui abbiamo finalmente lo spazio per ascoltarle.
La corsa verso il passato
Ci sono momenti in cui la mente decide di mostrarti una sequenza precisa: una corsa nel prato, un volto che si ringiovanisce, una luce che aumenta. Una figura che sorride, libera, felice. Una ragazza che, forse, non hai mai davvero potuto essere. I capelli che cambiano colore, forma, consistenza, fino a riconoscere in quella trasformazione un riflesso di te.
La scena si restringe. La figura giovane lascia spazio a una bambina di quattro anni, seria, immobile, come se custodisse qualcosa che non si può dire a parole. E ancora più in profondità, un’immagine più piccola, quasi elementare. Il simbolo dell’origine. Il punto da cui tutto è iniziato.
Non è un ricordo. Non è un sogno. È una parte dell’Io che chiede riconoscimento.
Una domanda che emerge dal silenzio: cosa vuole dirmi la mia mente? Perché mi mostra questo volto e non altri? Perché proprio adesso?
Forse per ricordare una parte dell’infanzia archiviata troppo in fretta. Forse per riportare alla luce una ferita che non ho nominato ma che esiste ancora. Forse per mostrarmi il simbolo più fragile e originario di me stessa, quello che nessuno ha mai davvero protetto.
Non ho una risposta definitiva. Ma so che certe immagini non arrivano per caso. E che quando appaiono, non chiedono interpretazioni perfette: chiedono presenza.
Quando l’Io chiama, non puoi far finta di non sentire
Non siamo creature lineari. Siamo tessuti sovrapposti, epoche emotive, vite interne. E quando uno di questi strati si presenta davanti a noi, una bambina, un’adolescente mai vissuta, un volto felice che corre, o un nucleo fragile che sembra parlare senza voce, non è un’allucinazione.
È un richiamo. Un tentativo della mente di ricomporre ciò che è rimasto disperso. Un invito a rientrare in contatto con ciò che abbiamo lasciato indietro. Un modo, forse, di tornare interi.