C’è un Paese che parla di inclusione, di salute mentale, di diritti. Ma poi volta lo sguardo. È l’Italia delle persone senza casa, dei malati psichiatrici dimenticati, dei tossicodipendenti che nessuno chiama più per nome.
Vivono accanto a noi, ma non li vediamo. Dormono sotto i portici delle nostre città, seduti vicino ai bancomat, negli androni dei palazzi, nei reparti d’attesa degli ospedali. Sono i nuovi invisibili, ma in realtà c’erano sempre stati. Solo che, oggi, sono più numerosi e più soli.
Secondo l’Istat, in Italia ci sono oltre 96 mila persone senza fissa dimora. Un numero che non tiene conto di chi si nasconde: chi dorme in auto, chi vive in case occupate, chi non ha più documenti né residenza. A Roma sono più di 22 mila. A Milano quasi 9 mila. Dietro ognuno di loro c’è una storia di caduta: un lavoro perso, una famiglia rotta, una malattia non curata, una dipendenza che ha tolto tutto.
Senza tetto: la città che finge di non vedere
Camminiamo tra loro ogni giorno. Li superiamo in fretta, come se non esistessero. Eppure, se li guardassimo davvero, scopriremmo che la strada non è un destino, ma una conseguenza. Chi finisce lì, raramente lo fa per scelta. Ci arriva dopo aver perso tutto: reddito, salute, affetti, fiducia. Molti avevano un lavoro, una casa, persino una laurea. La strada è l’ultimo piano di una scala che la società ha smesso di costruire verso l’alto.
Tossicodipendenti: malati o colpevoli?
Nel 2024, secondo il Dipartimento Politiche Antidroga, 231 persone sono morte di overdose in Italia. Per la prima volta, la cocaina ha ucciso quanto l’eroina. Un dato che dice tutto, e che non commuove più nessuno. Nei SerD, i servizi pubblici per le dipendenze, risultano in cura oltre 130 mila persone, ma migliaia restano fuori: chi non ha la forza di chiedere aiuto, chi non può permetterselo, chi teme il giudizio.
Perché sì, in Italia il tossicodipendente è ancora un colpevole, prima che un malato. Non un cittadino da curare, ma un problema da rimuovere. E così, mentre lo Stato si assolve dietro sigle e progetti a termine, le famiglie si spengono in silenzio: madri che dormono con un occhio aperto, padri che vendono l’auto per pagare una comunità, fratelli che diventano infermieri senza titolo e senza tregua.
Molti di loro non trovano posto nei centri, non per mancanza di volontà, ma di spazio. Il personale diminuisce, i fondi si riducono, e il tempo dell’attesa diventa tempo perso di vita. Ogni overdose evitabile è una sconfitta collettiva, ma il tema non fa audience: nessun talk show, nessun dibattito politico, solo silenzi e statistiche.
Eppure la tossicodipendenza non è solo un dramma sociale: è una malattia complessa, che intreccia psiche, dolore, solitudine, povertà. Curarla richiede competenze, ma anche umanità. E l’umanità, spesso, è proprio ciò che manca.
Chi entra in un SerD non cerca redenzione: cerca solo di restare vivo. Ma il sistema, invece di accoglierlo, gli chiede burocrazia, costanza, lucidità, tutte cose che una dipendenza divora per prime. È come chiedere a un naufrago di nuotare fino al porto, e poi rimproverarlo perché non ce l’ha fatta.
In fondo, la vera dipendenza della nostra società non è dalle sostanze, ma dall’indifferenza. Un anestetico collettivo che ci fa credere di essere sani, mentre lasciamo che altri muoiano in silenzio.
Malati psichiatrici: curati a metà
L’Italia ha fatto la rivoluzione con la legge Basaglia, chiudendo i manicomi e portando la cura “nel territorio”. Ma oggi quel territorio non esiste più. Mancano medici, mancano posti letto (meno di 20 ogni 100.000 abitanti, tra i più bassi in Europa), e manca continuità. Il risultato? Persone lasciate sole, famiglie che si arrangiano, casi che esplodono quando è troppo tardi. Il sistema spende solo il 3,3% della spesa sanitaria per la salute mentale, contro una media europea del 5%. E intanto aumentano i suicidi, le depressioni, i disturbi da ansia e da isolamento.
Famiglie al collasso
Dietro ogni “invisibile” c’è spesso una famiglia che ha provato di tutto. Genitori che dormono in auto per non perdere il figlio tossico di vista. Fratelli che diventano assistenti non retribuiti. Madri che bussano a dieci sportelli e ricevono dieci risposte diverse. Il welfare c’è, ma è lento, frammentato, impersonale. Per ottenere un aiuto servono firme, domande, moduli, punteggi. Per perdere tutto, basta un mese.
Se davvero siamo un Paese civile, perché una persona deve morire di freddo in una città che parla di inclusione?
Perché chi soffre di depressione deve attendere mesi per una visita, mentre chi ha una ferita al braccio viene soccorso in un’ora?
Perché un tossicodipendente deve scegliere tra la vergogna e la solitudine? E quando abbiamo deciso che la dignità umana è un lusso riservato ai “funzionanti”?
Non serve pietà, serve lucidità
Non basta un euro donato o un selfie davanti a una mensa dei poveri. Servono case vere, percorsi di cura stabili, personale qualificato, politiche di lungo periodo. Serve uno Stato che riconosca l’emergenza non come “eccezione”, ma come fallimento quotidiano di un sistema che non vede.
< ElyMode On >
L’inclusione non è un post, è una scelta di campo. E la vera povertà non è mancare di denaro, ma di sguardi. Finché continueremo a pulire la coscienza e non la strada, l’Italia resterà un Paese civile solo a parole.
< ElyMode Off >
Fonti principali:
ISTAT, Povertà in Italia – 2024
fio.PSD – Rapporto Homelessness 2024
Ministero della Salute / Dipartimento Politiche Antidroga – Relazione Annuale 2024
OMS e Ministero della Salute – Piano Nazionale Salute Mentale 2025–2030