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L’ipocrisia dell’emancipazione: quando il progresso è solo un filtro Instagram




Tutti parlano di inclusione, equità, rispetto.
Le parole più usate del decennio.
Le senti nei discorsi pubblici, nelle pubblicità, nei comunicati stampa.
Perfino chi non ha mai cambiato idea su nulla ora sembra improvvisamente progressista, basta aggiungere un hashtag e un sorriso di circostanza.

Viviamo nell’epoca dell’emancipazione esibita: quella che si mette in vetrina come un trofeo, che si mostra più che si pratica.
Perché essere “etici” oggi è conveniente. Fa curriculum, fa immagine, fa like.
Così nascono le campagne “per la parità”, i progetti “per l’inclusione”, le foto di gruppo dove tutti sorridono e nessuno crede davvero a quello che dice.

Dietro le quinte, però, la trama resta sempre la stessa.
Le stesse dinamiche di potere, gli stessi schemi antichi, gli stessi pregiudizi appena mascherati.
Solo che ora si finge meglio.
Il patriarcato si è messo la cravatta dell’uguaglianza e continua a dirigere lo spettacolo, ma con toni più educati.

E poi ci sono gli altri: quelli che non fingono nemmeno.
Niente proclami, niente giornate dedicate, niente post social.
Maschilisti dichiarati, conservatori fieri, incoerenti senza vergogna.
Almeno con loro sai dove stai. Nessuna scenografia, solo onestà brutale.

E allora viene spontaneo chiedersi:
cosa è peggio, chi non evolve, o chi recita il progresso come fosse una parte da interpretare?
Forse la seconda categoria, perché si nasconde dietro la morale e ne svuota il senso.

La verità è che la vera emancipazione non ha bisogno di comunicati stampa.
Non ha bisogno di slogan, né di “valori aziendali”, né di corsi di sensibilizzazione obbligatori.
Si misura nel silenzio dei comportamenti, nel modo in cui tratti chi non può darti nulla in cambio.

Il resto è solo un set ben illuminato, con la scritta “parità” al neon.
E dietro, gli stessi vecchi copioni.

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