Articoli, Attualità e Società

Vivere di lavoro o sopravvivere lavorando? La bugia della meritocrazia


In Italia lo stipendio medio netto si aggira attorno ai 1.700 euro al mese. Ma è una media che inganna. La realtà quotidiana di moltissimi lavoratori è un’altra: poco più di 1.000 euro al mese per otto ore al giorno, cinque o sei giorni a settimana. Non è vita: è sopravvivenza. Negli ultimi anni l’inflazione a doppia cifra ha eroso potere d’acquisto e margini di dignità: con lo stesso stipendio oggi si vive peggio, molto peggio.

Eppure, su questo scenario entra in scena il mantra preferito del dibattito pubblico: la meritocrazia. Parola brillante, concetto opaco. Se davvero il merito contasse, i più competenti e produttivi dovrebbero vedere aumenti, avanzamenti, formazione, responsabilità. Invece, troppo spesso, la carriera la fanno i più visibili, i più allineati, i più abili a presidiare riunioni e relazioni. Chi è affidabile viene dato per scontato, chi si mette in mostra viene premiato. È davvero merito o solo gestione della percezione?

La retorica del “se lavori bene, verrai riconosciuto” crolla davanti ai meccanismi concreti: griglie retributive rigide che ignorano la performance reale, contratti a termine e part-time involontari che tengono la testa bassa, esternalizzazioni che spezzano responsabilità e salari, valutazioni opache dove i criteri cambiano con l’umore del capo. Ciò che si misura si premia: se misuriamo presenza, obbedienza e visibilità, finiamo per premiare proprio questo. Non la competenza, non il valore creato, non l’impatto.

Anche la leadership spesso confonde guida e controllo. Un buon capo moltiplica il talento, un capo insicuro lo ostacola. E quando la gerarchia ha paura del merito altrui, la meritocrazia diventa un guscio vuoto che protegge lo status quo. Così il sistema si auto-conserva: stabilità per i mediocri, frustrazione per chi vale. Poi ci si stupisce se il talento se ne va.

Il punto politico è semplice: lavorare non basta più a vivere. E continuare a evocare la meritocrazia senza cambiare i meccanismi che premiano davvero il merito è un alibi. Servono criteri trasparenti di valutazione, percorsi chiari di crescita, salari che riflettano il valore generato, formazione continua accessibile, contratti che non trasformino la vita in una lotteria mensile. Finché queste condizioni non esistono, parlare di meritocrazia è marketing: una parola nobile usata per giustificare diseguaglianze antiche.

Un tempo il patto sociale era: lavora e avrai dignità. Oggi quel patto è stato tradito. La domanda non è più “hai un lavoro?”, ma “il tuo lavoro ti permette di vivere?”. Se la risposta è no, e per troppi lo è, allora il problema non è il merito dei singoli, è l’architettura del sistema. Un Paese che non paga e non promuove chi crea valore non è un Paese moderno: è un Paese che si condanna da solo alla mediocrità.

Lascia un commento

Lascia un commento