La diffidenza è come un’equazione irrisolta: funziona, ma non sempre sappiamo perché. È il sospetto che si insinua quando qualcuno sorride troppo, la pausa impercettibile prima di firmare un contratto, il brivido improvviso che ti dice “qualcosa non torna”. Non è solo un atteggiamento sociale, ma un meccanismo complesso che appartiene tanto alla biologia quanto alla psicologia e alla filosofia.
Il nostro cervello porta in eredità milioni di anni di selezione naturale. Nelle profondità del sistema nervoso vive il cervello rettiliano, addestrato a distinguere l’amico dal predatore. La diffidenza nasce lì, nello stesso spazio mentale che decide se correre o combattere. Per i nostri antenati fidarsi troppo significava morire, ed ecco perché la diffidenza non è un difetto, ma un software di sopravvivenza installato di default.
Se la biologia le dà un’origine, la psicologia le regala sfumature. Gli studiosi parlano di euristiche, scorciatoie mentali che ci fanno prendere decisioni rapide. Sono imperfette ma spesso utili. Quello che viene definito intuito femminile non è magia, ma la capacità di cogliere segnali microscopici: un tono di voce esitante, una micro-espressione sfuggente, un dettaglio incoerente.
Clarissa Pinkola Estés, in Donne che corrono coi lupi, descrive questa percezione come un fiuto selvatico, un radar interiore che protegge dal pericolo. La Donna Selvaggia, archetipo universale che Estés porta alla luce, è la parte psichica che sa riconoscere ciò che non va, che annusa il rischio prima che diventi danno. Un esempio è la fiaba di Vassilissa, che deve separare il grano dal loglio e affrontare prove difficili: imparare a distinguere ciò che è vero da ciò che inganna, fidarsi del proprio intuito e rimanere salda di fronte a chi vuole manipolarla. Estés scrive: “Quando perdiamo contatto con la psiche istintiva, viviamo in uno stato prossimo alla distruzione; la donna che non riesce a riunirsi con la propria natura istintuale si lascia trasportare dalla vita e ne paga le conseguenze.”
Ma la diffidenza non è sempre un dono. A volte diventa insicurezza e si trasforma in gabbia. La differenza è sottile: la diffidenza sussurra “valuta se fidarti”, l’insicurezza sussurra “non fidarti di nessuno, neppure di te stessa”. La prima è un’arma, la seconda un cappio. La prima protegge, la seconda paralizza.
Non è un caso che il dubbio sia anche un tema filosofico. Cartesio scriveva “dubito, dunque sono”, convinto che il dubbio fosse la via per arrivare a verità più solide. Eppure, nel quotidiano, ci fermiamo spesso a metà del percorso: dubitiamo, diffidiamo, ci difendiamo, ma non approdiamo mai alla chiarezza. Restiamo a galleggiare in un mare di sospetti, come se la prudenza fosse già conoscenza. Così la diffidenza, da compagna, diventa prigione.
Eppure serve. La diffidenza è come un paracadute: essenziale, ma se lo tieni sempre aperto non camminerai mai. È necessaria per non precipitare, ma se la usi in ogni passo diventa ingombrante. Il punto non è eliminarla, ma imparare a dosarla.
Forse il segreto è questo: fidarsi del proprio istinto, senza trasformarlo in muro. Ascoltare il cane che ringhia dentro di noi, ma non lasciargli mordere chiunque bussi. Camminare con il dubbio accanto, come con un vecchio amico: utile quando ci mette in guardia, pericoloso quando non ci lascia respirare.
Alla fine la domanda rimane la stessa: quanto ci fidiamo del mondo? E, soprattutto, quanto ci fidiamo di noi stessi?
" E poi arriva la vera domanda: perché ho scritto questo articolo? Boh. Forse il mio intuito ha voluto fare il lupo e io ho obbedito. "
Lascia un commento