Quando ero bambina la mia giornata aveva una scansione precisa: i compiti, la merenda e poi… la televisione. Non una tv qualsiasi, ma quella fatta di cartoni e sigle che oggi suonano come piccole madeleine: i Puffi che cantavano in coro, Heidi che correva felice tra le montagne, le guerriere di Sailor Moon con le loro frasi che sembravano formule magiche, e l’epopea infinita di Dragon Ball, dove una puntata intera poteva essere dedicata a un urlo.
Poi, crescendo, sono arrivate le serie: Buffy l’ammazzavampiri, con i suoi mostri metaforici che parlavano in realtà delle paure adolescenziali, e tante altre che sembravano aprire porte nuove, diverse da quelle dei cartoni dell’infanzia.
La tv era una finestra che non potevamo aprire quando volevamo. I programmi li aspettavi: c’era l’orario preciso, il canale preciso, e se perdevi un episodio… amen. Quella mancanza diventava parte del gioco, un piccolo mistero che alimentava la fantasia.
Oggi invece viviamo in un mondo di abbondanza. Tutto è a portata di click, sempre disponibile, sempre on demand. Nessuna attesa, nessun vuoto da riempire con l’immaginazione. Ed è qui che mi accorgo della differenza più grande: noi imparavamo a desiderare, a costruire l’attesa. I bambini di oggi, forse, non hanno lo stesso tempo per farlo.
Non è un giudizio, solo una riflessione. Abbiamo scambiato la scarsità per l’abbondanza, ma forse in quell’imperfezione della tv di ieri c’era anche un piccolo insegnamento: saper aspettare, saper inventare, saper ricordare.
E forse per questo, ancora oggi, basta sentire due note di una sigla anni ’90 per sentirsi subito a casa.
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